Oggi vorrei parlarvi della “Coazione a Ripetere” e degli abbandoni precoci della terapia.

Ultimamente, infatti, ho registrato un aumento delle richieste d’aiuto; molte di esse sono però acerbe, poco convinte o profonde, desiderose forse di un farmaco magico che rimetta tutto a posto e NON di un incontro umano faticoso che permetterà nel tempo di trasformare il malessere, la crisi e i sintomi in risorse.
Capita così che un paziente sparisca dopo un primo contatto o dopo il primo mese di lavoro o ancora all’attenuarsi dei sintomi (ovvero quando, come dico spesso, inizia il vero lavoro su se stessi!). Questo può succedere dopo la prima o la quinta seduta, come alla novantanovesima. Recentemente, mi è capitato con un paziente dopo 1 anno e mezzo di lavoro analitico, lì dove iniziava a rendersi possibile un cambiamento. Ma è accaduto anche con una paziente al secondo mese di terapia, che forse era delusa dall’impossibilità a velocizzare il cambiamento come tutto velocizzava nella propria vita, dolori inclusi, per consolidata prassi. M., invece, dopo una interruzione di 2 mesi, è tornata più motivata e più consapevole di come aveva funzionato e di cosa si stava muovendo dentro di lei (e che non voleva vedere!) a causa della terapia.

In effetti la psicoterapia provoca dei cambiamenti nell’equilibrio della persona cui si può non essere preparati. Tale “scombussolamento” atterrisce, scompensa, destabilizza, fa provare vergogna, colpa e altre emozioni disturbanti; così si preferisce a volte abbandonare il campo e sedare la paura. Il paziente lascia così la terapia prima che essa si concluda o comunque prima che si raggiungano gli obiettivi prefissati. Naturalmente il fenomeno del drop out è complesso e non può essere ridotto solo ad alcune variabili.

Sono consapevole che “Mettersi in gioco non è semplice” e che, al di là dei primi entusiasmi, rappresenta uno scoglio ben più grande dei primi contatti.

Noi terapeuti siamo qui chiamati ogni volta a metterci in discussione su eventuali errori. Ma soprattutto siamo chiamati a leggere queste dinamiche oltre la lente del “fallimento”, inserendoli entro il funzionamento dei nostri pazienti. In questo modo infatti, se la persona tornerà o consentirà una seduta di commiato, sarà possibile restituire quanto accaduto come caratteristica di un certo modo (sofferto!) di stare nel mondo. Avremo così la possibilità di trasformare un drop out in una conquista: quando la persona sarà pronta a rielaborare l’accaduto, potrà trarne forza, spunti e risorse!

D’altronde – dico sempre ai miei pazienti – c’è un tempo per tutto. E il tempo interiore del cambiamento NON può essere “sovradeterminato”, come dice V., dai terapeuti o dai pazienti. Bisogna accettare il tempo fisiologico e incognito della mente: quello che c’è voluto per renderci un uomo di 67 anni con un sintomo ansioso, una ragazzina con un sé fragile, un bambino rabbioso… e poi quello altrettanto lungo, fisiologico e incognito che ci vorrà a cambiare i propri schemi interiori! In questo senso, diceva oggi in una bella e umana relazione on-line Romina Coin, “il tempo dell’erba, è quello dell’erba! Se proviamo a tirarla per affrettarne la crescita, essa si strapperà…”.

La nostra mente, infatti, procede per ripetizioni. Interiorizziamo inconsciamente quanto già vissuto e lo ripetiamo all’infinito in automatico. La psiche infatti ama il noto: cerca zone comfort, sicurezze e addirittura – come diciamo in Sicilia – preferisce “il tinto conosciuto”, al “nuovo a conoscersi”. L’ignoto, al contrario, spesso fa paura.

Ogni volta che incappo in questo grande scoglio di ogni percorso di cura, penso all’Eterno ritorno di Nietzsche:

“Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere!». Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato?” (F. Nietzsche, La gaia scienza).

Nella vita come in terapia, non è dunque un caso che ci si ritrovi a vivere, più e più volte, situazioni simili, spiacevoli, rischiose, dipendenti, sadiche, aggressive, masochistiche, evitanti, rapporti fallimentari caratterizzati da modalità relazionali sempre identiche a quelle del passato etc., etc., etc. In questi casi, inconsapevoli del proprio ruolo attivo nel determinare gli eventi che li colpiscono, gli individui si sentono spesso vittime del destino, di un mondo cattivo o perseguitati dalla cattiva sorte. Ciò accade anche nella cura, quando il paziente, attraverso la riproduzione del proprio solito (dis)funzionamento nella relazione col terapeuta, sabota inconsciamente il trattamento, bloccandone il progresso o interrompendolo prima che sia ultimato.

In ogni caso, come terapeuti, nonostante le fisiologiche dispiaceri e vissuti di inefficacia, dobbiamo imparare a farne tesoro e perdonarci queste „perdite“, a considerarle insite nelle dinamiche umane (“umane”, appunto, NON di macchine perfette!), fatte di rotture, ma anche di meravigliose riparazioni. Tutti abbiamo infatti sempre la possibilità, anche micro, di Scegliere cosa fare della tragicità e difficoltà dell’esistenza.

Vorrei allora dire ai miei pazienti passati, presenti e futuri che NON siamo condannati all’eterna ripetizione.

E’ possibile aver cura di sé e sviluppare un pensiero sul rischio di eterne circolarità patologiche ! Nietzsche ancora una volta lo spiega benissimo:

«Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca. La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava invano! Non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: “Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi”». Quando il pastore taglia con un morso la testa del serpente, la sua volontà si eternizza e l’uomo si trasfigura, diventa signore dell’eternità del tempo: «Non più pastore, non più uomo, – un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra).

Cari pazienti passati, presenti e futuri, ci tocca accettare che funzioniamo col pilota automatico secondo la legge dell’Eterno Ritorno dell’uguale.

E accettare pure, però, che abbiamo TUTTI la possibilità di farlo in un modo creativo e rivoluzionario: quello della Scelta Attiva!

Secondo questa arte, ogni nostra piccola scelta – anche quella di restare in terapia nonostante la fatica e per tutto il tempo che ci vorrà! – entrerà nell’eternità del tempo, stravolgendo lo schema originario e donandoci vita, soggettive conquiste e inedite libertà