Conosco B. dopo la morte del suo fidanzato, vissuta come un crollo esistenziale nonostante i suoi giovani vent’anni. P. invece è alle prese con la grave malattia del padre, difficile anche solo da ricordare: meglio fare come se non ci fosse e pensare al Natale! N. arriva terrorizzata in studio per paura di morire di coronavirus. G. non riesce ad accettare la demenza senile dei nonni e non fa che piangere (tanto da non riuscire a parlarne), mentre S. si dà molto molto da fare per non sostare sul tumore della madre… così tanto da fare da perdersi in mezzo alle cose e da sviluppare un malessere generalizzato e senza nome.

 

Cosa hanno in comune questi casi?

  • Sicuramente riguardano tutti pazienti messi a dura prova da lutti presenti, prossimi o futuri e da piccole/grandi perdite anch’esse luttuose.
  • Inoltre, riguardano la morte e come essa è affrontata all’interno della cultura degli anni 2000: con grande disagio!

Il nostro attuale mondo è infatti animato da ideali “erotici”, apparentemente volti all’eros e alla continua ricerca della vitalità e del piacere. In questo tipo di mondo, tutto è performance, la vita può essere controllata e indirizzata e l’uomo stesso è fautore della sua stessa realizzazione. Si tratta di una cultura impastata di urgenza del fare. Una cultura fatta di continui agiti che mettono una distanza reale, siderale, tra l’uomo e il suo sentire-soffrire-morire. Un cultura, ancora, priva di pensiero critico e in generale priva di limite, ove il limite massimo resta comunque quello della morte, intesa come inaccettabile. Essa, piuttosto che naturale, è oggi vissuta come un attacco all’onnipotenza esistenziale e va esclusa dal pensiero, negata ed esorcizzata. La nostra è insomma una cultura “tanatofobica”!

Allora, di fronte alla paura della morte, che cosa accade nelle menti di B., di P., di G., di N. e di S.?

Ovviamente una detonazione degna del Big Bang! Come insegnano i miei pazienti, la morte è infatti oggi un evento in-naturale: non si possono prendere in considerazione le vulnerabilità e le caducità (ad esempio di un corpo che invecchia, come quello dei nonni di G.). Inevitabile quindi è che nei nostri studi arrivino non solo pazienti traumatizzati da morti violente e inattese, ma anche persone che non riescono a gestire l’angoscia del tempo che passa, dei genitori che invecchiano e si ammalano o della prospettiva dell’ipotetica morte propria e altrui… Rispetto a questi scenari, si prova quasi sempre un doloroso senso di insufficienza e di inadeguatezza e un forte vissuto depressivo.

Insomma, bisogna prenderne atto: non ci si può proprio stare! Al massimo, ci si relaziona con la morte in regime di “spettacolarizzazione”: oggi la morte è “pornografica”! E non nel senso che è “erotica” come una prostituta o un film hard, ma nel senso che è messa, come una meretrice, sulla scena e in modo osceno per intrattenere! Pensiamo ai plastici di “Porta a porta”, utili a esorcizzarne l’angoscia trasformandola in un oggetto ludico come tanti con cui appagare i piaceri del pubblico: la morte è una distrazione! E’ resa spettacolo, come a teatro! Un altro valido esempio è il caso di Noa Pothoven, giovanissima ragazza che ha scelto di cessare di vivere a causa della sua ormai intollerabile sofferenza. Anche in questa occasione, la morte diventa oggetto di un “cineforum” sui social…: gli “utenti”, seduti dietro una tastiera, parlano (ben schermati) delle morti altrui seguendo i principi del talk show.

Questo sfondo culturale permea e intenziona tutti gli esseri umani, come i genitori di B., che non accettano il suo lutto, la invitano a riprendere a vivere dopo appena un mese dalla morte del fidanzato, a ricominciare a studiare, a uscire, a lavorare; si preoccupano e la desiderano prestante come prima del lutto, proprio come se nulla fosse accaduto, e rifiutano i suoi mutamenti (minore iper-prestatività, pensiero sul senso dell’esistere, riconsiderazione della propria vita e dei suoi obiettivi, …), considerandoli negativi.

 

Come prendersi allora cura di tutto questo?

Innanzitutto, è necessario tornare a parlare di morte senza esorcismi e tabù. E farlo considerandola un atto naturalmente umano, insito nel vivere. Poiché infatti l’essere umano è limitato nel tempo e nello spazio, la morte fa parte di lui.

Ma possiamo oggi accettare di essere vulnerabili? Limitati? Moribili? Incontrollabili? Noi, come i nostri cari…

Queste sono le prime faccende fruttuosamente affrontate con B., P., G., N. e S. per aiutarli ad accogliere e affrontare il proprio indicibile dolore. La psicoterapia, infatti, parte dal malessere di un Sé che sta dentro un preciso mondo . E nel fare ciò va oltre lo spettacolo che intrattiene, permettendo al paziente di accedere a poco a poco – sostenuto e umanamente accompagnato dal terapeuta – alla difficile e sorprendente elaborazione dei propri lutti.

 

“La morte, naturalmente, provoca prurito, e lo provoca di continuo.
E’ sempre con noi, gratta a una qualche porta interiore,
fruscia con delicatezza, appena udibile,
appena al di sotto della membrana della coscienza. […]
Affrontare questo tema ci porta non ad aprire un qualche pernicioso
vaso di Pandora, ma a riprendere a vivere in una maniera più ricca e caritatevole”
(Yalom I., 2017).